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Le nostre difese in prima linea

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Massimo Locati ha cominciato a studiare medicina con l’idea di diventare pediatra. Ma, all’inizio del quarto anno si è reso conto “di seguire con entusiasmo tutta la parte che riguarda i meccanismi con cui si sviluppa e si manifesta la malattia, mentre non provavo la stessa passione per la parte diagnostica e terapeutica. E, soprattutto, mi sono reso conto che la disciplina che mi interessava di più era l’immunologia”.
All’epoca l’insegnamento di immunologia era solo uno dei 110 possibili esami complementari, di cui soltanto due erano obbligatori nell’ordinamento della facoltà. Il primo impatto di Locati non è dei più affascinanti. “Dopo tre ore e mezza di sierotipi delle salmonelle ero scoraggiato. Per fortuna, incontrai un tecnico di laboratorio che lavorava all’Istituto Negri, che mi suggerì di presentarmi li”. Al quarto anno di medicina comincia a frequentare il laboratorio di Biologia dell’Istituto, diretto allora da Alberto Mantovani. Inizia così un lungo sodalizio professionale che dura tutt’ora. Presso il Mario Negri, Locati svolge la sua tesi di laurea e prende due specialità, una in ricerca farmaceutica e l’altra in tossicologia.
Successivamente trascorre due anni presso il National Institute of Health di Bethesda, Usa, svolgendo una serie di ricerche sulla relazione tra chemochine e virus Hiv. Rientrato in Italia, torna al Mario Negri e,subito dopo, comincia la carriera accademica come ricercatore all’Università di Brescia. Dopo tre anni si trasferisce sempre come ricercatore all’Università di Milano, dove attualmente è professore associato presso l’Istituto di Patologia. È, infine, approdato in Humanitas, come responsabile del Laboratorio di Biologia dei Leucociti, sotto la Direzione Scientifica del prof. Mantovani. “Credo sia molto importante abbinare l’attività accademica alla ricerca. Soprattutto in Italia dove la ricerca fatica a trovare fondi e spazi adeguati. Realtà come Humanitas rappresentano una grande potenzialità per sviluppare ricerche di alto livello e l’università, dal canto suo, ha tutto l’interesse a sostenere questo tipo di processo con le idee e la formazione di nuove leve di scienziati”.

La prima linea di difesa
L’immunità innata è la parte più antica del nostro complesso sistema difensivo. È una delle conquiste evolutive più importanti che abbiamo in comune con tutte le specie viventi, a partire dagli organismi unicellulari. Agisce in tutti i distretti del corpo con lo stesso obiettivo: creare nel più breve tempo possibile la prima linea di difesa contro qualunque agente, esterno o interno, che mette in pericolo l’integrità dell’organismo.
Questo fenomeno, chiamato risposta infiammatoria, ha anche altre due funzioni fondamentali. Innescare i processi per riparare il tessuto danneggiato e attivare le cellule dell’immunità specifica, in grado di distruggere selettivamente gli invasori e di rendere più efficace la reazione nel caso di un secondo attacco.
Le ricerche più recenti hanno dimostrato come i fenomeni infiammatori siano coinvolti in molte patologie: dall’infarto del miocardio, al morbo di Alzheimer, fino alle malattie autoimmuni, in cui le cellule del corpo stesso vengono scambiate per il nemico. Massimo Locati spiega come la scoperta dei meccanismi con cui si innesca e viene regolata la risposta immunitaria innata ha aperto enormi prospettive terapeutiche.

Sotto attacco
Basta la puntura di una spina, una piccola lesione che consente ad eventuali batteri di penetrare nel nostro corpo, per scatenare una vera e propria guerra. In tutti i tessuti sono presenti macrofagi che hanno la funzione di cellule sentinella. Sulla loro membrana c’è una serie di recettori in grado di riconoscere gli elementi estranei all’organismo e, quindi, potenzialmente pericolosi. In questo caso si attivano dal loro stato di quiescenza e cominciano a produrre i segnali d’allarme che innescano l’immunità innata. “Le sostanze prodotte hanno lo scopo di richiamare sul luogo del danno prima le cellule necessarie a bloccare gli invasori e poi quelle utili a riparare il danno”, spiega Locati. “La classe più importante di molecole coinvolte in questo processo è quella delle chemochine, il cui nome è composto dall’unione dei termini citochine e chemiotattiche. La chemiotassi è, appunto, il meccanismo che induce una cellula a spostarsi da un punto a un altro dell’organismo”.
Questi messaggeri raggiungono la parete esterna dei vasi ed espongono all’interno del circolo ematico un segnale chimico riconoscibile. I globuli bianchi in circolo nel sangue, rilevano immediatamente la presenza di un problema e si concentrano nel punto del vaso dove è comparso l’allarme. Si trasferiscono nel tessuto, dove un’altra citochina li indirizza nel luogo preciso del danno. Sono le prime truppe d’assalto ad arrivare in prima linea. Si tratta dei granulociti neutrofili, che rappresentano circa il 60 per cento dei globuli bianchi in circolo e che, una volta attivati, si trasformano in killer micidiali, pronti a distruggere ciò che trovano sul loro percorso. In questa fase l’attacco è così violento che anche il tessuto stesso ne subisce le conseguenze. “Alcuni dei sintomi che percepiamo, come il dolore, la formazione di un edema, non sono causati dal patogeno, ma dal ‘fuoco amico’ delle cellule del nostro sistema difensivo”, chiarisce Locati.

Una volta che gli agenti infettivi sono stati eliminati, un’altra serie di segnali richiama sul posto le cellule destinate a “ripulire” il campo di battaglia e a indurre il processo di guarigione del tessuto. Si tratta dei monociti che, abbandonando il circolo ematico, si trasformano in macrofagi, grosse cellule in grado di mangiare letteralmente i resti dei nemici e stimolare il tessuto a produrre nuove cellule e a ripristinare i vasi danneggiati. Conclusa questa operazione, giungono sul posto cellule regolatorie, che hanno il compito di trasmettere i segnali necessari all’innesco dell’immunità specifica e di dare il “cessato allarme” generale. La zona è finalmente al sicuro.
“È fondamentale in tutto questo processo”, racconta Locati, “che siano richiamate sul posto le cellule giuste, nella quantità adeguata e al momento opportuno e che tutte le fasi siano perfettamente temporizzate. Una risposta inadeguata potrebbe lasciare campo al patogeno per diffondersi, mentre il proseguimento del processo oltre il necessario potrebbe provocare danni seri all’organismo. Il ruolo di modulazione di questo meccanismo è affidato proprio alle diverse chemochine che ‘parlano’, trasmettendo le corrette istruzioni alle cellule immunitarie. Lo studio del loro sistema di comunicazione ci consente di intervenire in questo processo per ripararlo, quando non funziona adeguatamente, o indirizzarlo verso particolari obiettivi terapeutici”.

Di Carlo Falciola

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