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A New York e a Milano per battere il dolore

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Il professor Marco Pappagallo, 44 anni, si è specializzato nel trattamento del dolore cronico alla “John Hopkins University” di Baltimora, dove è arrivato nel 1990. Dopo 9 anni trascorsi nei dipartimenti di neurologia, neurochirurgia e anestesia, si è trasferito a New York, assumendo l’incarico di direttore del “Centro del dolore” alla “Mount Sinai School of Medicine”, collegata alla “New York University School of Medicine”. Il professor Pappagallo, italianissimo, è uno dei tanti “cervelli” emigrati negli States in omaggio alla ricerca scientifica. Dal 1986 vive e lavora in America. Sull’argomento, oggi di grande attualità, abbiamo interpellato anche la dottoressa Valentina Bellato, capo sezione Terapia del Dolore di Humanitas.

Professor Pappagallo, com’è organizzata negli Stati Uniti la cura del dolore?
“Negli Usa ci sono le fellowship che prevedono da uno a tre anni di “superspecializzazione” solo nel trattamento del dolore. Sono studi molto rigorosi e dettagliati sulla materia del dolore a cui accedono medici di branche specialistiche molto differenti: per la maggior parte anestesisti, ma non mancano neurologi, terapisti della riabilitazione, medici generici e psichiatri. Personalmente, sono sempre stato interessato alle cure del dolore. All’epoca, negli Stati Uniti, non esistevano scuole con queste caratteristiche: tutto era in mano agli anestesisti. E anche oggi, in Italia, non vi sono specializzazioni del genere”.

Quale deve essere il livello di competenza dei medici che si occupano del dolore?
“Altissimo, senza ombra di dubbio” spiega Pappagallo. “La cura del dolore è una disciplina molto complicata, che richiede nei vari centri un lavoro di “squadra” di molti specialisti. In questo settore così delicato, infatti, non può lavorare solo uno specialista che si dice competente su tutto. In un serio e moderno “Centro del dolore” è richiesto il lavoro di molti specialisti”.
Condivide questa tesi la dottoressa Valentina Bellato: “Penso che nel trattamento di qualsiasi tipo di dolore sia fondamentale comprenderne l’origine e la causa cioè fare una diagnosi avvalendosi di un’equipe plurispecialistica che lavori in modo multisciplinare. Rimangono importanti ed imprescindibili la conoscenza della fisiopatologia e soprattutto della semeiotica del dolore, cioè il riconoscimento dei sintomi e dei segni che contraddistinguono la malattia: senza questa guida si corre il rischio di sottoporre il paziente ad inutili, dannosi e costosi esami clinici senza contare l’enorme perdita di tempo e di risorse”.

Perciò, qual è la differenza fra “clinica del dolore” e “centro del dolore”?
“In passato la “clinica del dolore” – spiega il prof. Pappagallo – era gestita comunemente dall’anestesista o da un altro specialista che copriva un po’ tutte le specialità della medicina coinvolte in questi trattamenti specifici. Era basata, appunto, sull’operato di un solo specialista. A differenza del “centro del dolore” dove, oggi, lavorano più specialisti contemporaneamente collegati ad un ambiente universitario o ad un grande ospedale: di solito, si cura molto l’aspetto della ricerca scientifica, indice di serietà e scrupolo professionale. Ovviamente, è preferibile rivolgersi a queste ultime strutture”.

Per quali malattie si deve ricorrere alle cure dei “centri del dolore”?
Prof. Pappagallo: “La malattia dolorosa statisticamente più frequente è il mal di schiena” precisa il professor Pappagallo. “Ma, dall’8 al 10% della popolazione soffre di un dolore così tanto grave che lo rende disabile, al punto da costringerlo bloccato a letto, in ospedale o a casa. Non basta: i numeri, purtroppo, salgono parecchio, passando al 35-40% della popolazione mondiale che soffre di dolori gravi e ricorrenti o moderati e cronici in generale, in differenti parti del corpo. Che dolori sono? Mal di schiena, mal di testa , il dolore da cancro, dolori articolari, oppure la fibromialgia: quest’ultima non è conseguenza della malattia tumorale ma è una patologia benigna frequente, spesso non diagnosticata e non trattata adeguatamente. I dolori più preoccupanti e frequenti di quanto si pensi sono quelli neuropatici: colpiscono persone con danni al midollo spinale o affetti da sclerosi a placche, neuropatie diabetiche o dolori da herpes, come il “Fuoco di Sant’Antonio”. Il problema del dolore è enorme, straordinario: purtroppo non corrisponde un impegno altrettanto rilevante da parte delle organizzazioni sanitarie, sia negli Usa che in Italia. Il nostro Paese non è messo bene”.

C’è anche un problema di costi sociali?
Prof. Pappagallo: “Certamente. Quanto spende lo Stato per rimediare, a monte, al problema del dolore? Cifre rilevanti. Per far fronte a spese dirette – sanitarie – e indirette – dovute proprio all’assenza di ciascun malato dal lavoro, con la perdita di ore e ore di produttività. Negli Stati Uniti è stato calcolato che, per colpa del dolore, si spendono 100 miliardi di dollari all’anno. Pensi un po’: le grandi aziende farmaceutiche hanno preventivato 35 miliardi di dollari nel 2003 per produrre medicine che, purtroppo, non saranno molto utili a risolvere il problema: per esempio i Fans, gli antinfiammatori non steroidei. Sono molto comuni e diffusi, ma hanno un’efficacia davvero limitata”.

Sono allo studio nuovi farmaci per contribuire a lenire o eliminare il dolore?
“Oltre ai farmaci nuovi – rassicura il prof. Pappagallo – medici e specialisti dovrebbero rivalutare anche i vecchi, così come è avvenuto negli Stati Uniti. La classe di farmaci più efficace per la cura del dolore acuto e cronico è quella degli oppioidi. A questo punto è d’obbligo sfatare miti e paure: l’oppiofobia prima di tutto, che ha limitato ingiustamente uno studio attento di questi farmaci, negando sollievo ai moltissimi pazienti che soffrono. Io penso che, se un medico si reputa esperto di terapia del dolore, deve conoscere gli schemi di utilizzo anche degli oppioidi. Facendo un paragone, è come se un esperto di malattie infettive non sapesse usare la penicillina. E’ un fatto culturale. Ci sono molti nuovi farmaci, è vero: ma al confronto con gli oppioidi è come se parlassimo del gigante con i nani, per efficacia d’azione!”.

Ma servono a qualcosa tutti gli analgesici in commercio?
“A ben poco: sono per il 90% farmaci che funzionano come l’aspirina. Ma, vai a trattare il dolore da cancro con l’aspirina! E’ un modo di dire… sia ben chiaro! Per il dolore, Nella categoria dei Fans abbiamo a disposizione ben più di 35 prodotti, della categoria dei Fans. C’è inoltre una classe nuova di Fansfarmaci, i Cox2-Inibitori, che somministrati presentano minori effetti collaterali. Ma l’efficacia contro il dolore rimane la stessa, cioè alquanto ridotta…”.

Nello specifico, quali sono questi oppioidi?
“I loro nomi – spiega Pappagallo – faranno drizzare i capelli in testa a molti miei colleghi: il metadone, la morfina a lento rilascio, il fentanil cerotto, l’oxicodone. Un farmaco che funziona e ha la stessa potenza della codeina, è il tramadolo, disponibile in Italia. E’ più forte dell’aspirina, ma agisce in maniera molto più debole della morfina sui recettori degli oppioidi, rispetto ai quali risulta meno efficace. Si sono dimostrati molto utili nella cura dei dolori postoperatori, infiammatori; efficacissimi per i dolori da cancro e – se usati in combinazione con altri farmaci antidepressivi e antiepilettici – possono essere efficaci per i dolori neuropatici, i più difficili da trattare”.

Cosa pensa delle proposte di liberalizzazione dell’uso della cannabis a scopo terapeutico?
“La “cannabis” – spiega nel dettaglio – il prof. Pappagallo – è una molecola interessante: è stato dimostrato che funziona, in alcuni modelli sperimentali di dolore, sugli animali, soprattutto per quanto riguarda i “cannabinoidi”, con simulazioni di dolori neuropatici. L’aspetto più interessante delle ricerche? Nella specie umana, nel nostro organismo, disponiamo di almeno due recettori naturali fisiologici per la canapa: pare, infatti, che il nostro organismo produca endocannabinoidi e che queste sostanze funzionino e vengano rilasciate fisiologicamente nell’uomo. Ma c’è bisogno di nuove ricerche per determinarne meglio il ventaglio d’azione nella terapia analgesica del dolore. Queste sostanze pare infatti che funzionino nell’organismo umano, predisposto a ricevere farmaci a base di canapa, potendo giovarsene positivamente. Faccio un esempio. Negli Usa si adopera spesso il Marinol nelle cure palliative e in combinazione empirica con analgesici per uso compassionevole; il Marinol è una molecola a base di canapa prescritta per tutte le persone con forte dimagrimento e nausea, causati dalla chemioterapia per la cura di malattie tumorali o nei malati di Aids. Si è visto che questi soggetti traggono beneficio dalle cure con il Marinol o farmaci analoghi”.

E in Italia come siamo attrezzati per il trattamento del dolore?
“In Italia – interviene la dottoressa Bellato – sono gli anestesisti rianimatori ad occuparsi storicamente della cura del dolore, in quanto utilizzano nella loro pratica quotidiana gli stessi farmaci che si usano nel trattamento del dolore: per esempio i neurolettici, gli ipnotici, gli anestetici locali. Proprio per questi motivi conoscono a fondo la farmacologia e possono gestire tempestivamente gli effetti collaterali a volte indotti da questi farmaci. Gli anestesisti rianimatori, inoltre, si occupano di “anestesie loco regionali” e dei “blocchi del sistema nervoso” centrale e periferico che rappresentano una delle più importanti strategie di trattamento e diagnosi nel controllo del dolore”.
Per il prof. Pappagallo stiamo assistendo ad una svolta importante nel nostro Paese: “Gli Hospice, importati dai paesi anglosassoni, si sono dimostrati un’esperienza di rilievo. Costituiscono un passo avanti concreto in ciò che viene a mancare o che, perlomeno, si spera possa arrivare anche in Italia: la terapia direttamente a casa, a cura di infermieri e personale sanitario fortemente specializzato. Costoro devono occuparsi di trasportare il malato da casa all’Hospice – e viceversa – quando ne ha più bisogno per le cure, seguendolo a domicilio. La struttura Hospice concettualmente non è solo una casa di ricovero ma deve funzionare come un punto di riferimento per la famiglia. Negli Usa l’Hospice non è il centro in cui si porta il paziente a morire: attraverso essa, si cerca di creare invece un servizio di “out-patientension”, tendendo a trasferire sempre più spesso il malato grave a casa. In Italia, si sta percorrendo la strada giusta, ma occorre maggiore flessibilità perché i posti in regime di ricovero negli Hospice sono ovviamente limitati”.

Dottoressa Bellato, com’è organizzata in Humanitas la “squadra” di specialisti che combatte il dolore?
“In Humanitas è operativa una struttura ambulatoriale per il trattamento e la diagnosi del dolore acuto e cronico. Nel nostro istituto, grazie alla disponibilità di strumenti idonei e risorse sufficienti – pompe infusionali, PCA, cateteri peridurali – siamo in grado di controllare in modo più che soddisfacente il dolore postoperatorio: soprattutto con oppioidi, antispastici, Fans, antiemetici, adiuvanti. Tutto questo, unitamente ad una gestione fisioterapica continua e intensa nelle situazioni postoperatorie, ci consente tempi di degenza brevi, bassa incidenza di complicanze e soddisfazione del malato”.

Strutture quasi a punto, farmaci non efficaci – a meno che non si parli di oppioidi –e i medici? Ma per il prof. Pappagallo, chi dovrebbe curare il dolore nel nostro Paese?
“In Italia è del tutto assente la figura del medico che segue il malato con dolori terminali o che segue longitudinalmente il paziente non terminale con dolori gravi: cioè lo specialista del dolore e delle cure palliative. Questi medici, in collaborazione con una squadra di altri specialisti, dovrebbero avere una missione ben precisa: migliorare la qualità della vita dei loro pazienti. Su questo fronte, dovrebbero schierarsi in prima linea anche i medici di famiglia. Il motivo? I migliori centri specialistici per la cura del dolore si trovano nelle grandi città e non in provincia. In certe regioni del Sud sono spesso carenti o peggio assenti. Come fare allora? La soluzione, per continuare al meglio certe cure, risiede proprio nel medico di famiglia, il quale, oltre ad una preparazione di base su cure del dolore e cure palliative specifica sulle cure del dolore, dovrebbe possedere anche la cultura adatta. Si eviterebbero viaggi e disagi continui per centinaia di malati che, volentieri, ne farebbero certamente a meno”.
Per la dottoressa Bellato, invece, “è doveroso denunciare in Italia una scarsa attenzione ed informazione sul tema del dolore, a partire proprio dai medici: sarebbe auspicabile una maggiore conoscenza e sensibilità riguardo la terapia del dolore, anche iniziando a proporre – su questi argomenti – un nuovo percorso formativo per i medici di base”.

Ma l’uso delle morfine, degli oppiodi, non rischia di creare nuovi tossicodipendenti?
“Da più di 10 anni si usano per la cura del dolore acuto e cronico, negli Usa, e non c’è nessuna evidenza epidemiologica che siano stati creati nuovi drogati o che il loro numero sia aumentato. Se il drogato c’è già, viene identificato; se usa queste medicine particolari in maniera impropria, lo si blocca. Solo il 5% della popolazione soffre di una malattia, la cosiddetta “addiction”, che significa dipendenza psicologica dalla droga: il che è assai differente dalla sindrome d’astinenza, tipicamente fisica. Il 95% degli americani ne è probabilmente immune o, in altre parole, non presenta quei meccanismi biologici che fanno diventare il consumatore di droga un tossicodipendente. Un concetto deve essere chiaro a tutti” conclude il prof. Pappagallo: “Con l’uso medico della morfina non avremo mai nuovi drogati. Negli Usa la si adopera a piene mani, soprattutto per i trattamenti postoperatori e per il dolore da cancro. E non abbiamo mai avuto problemi”.

A cura di Umberto Gambino