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Malattia di Crohn, prevenzione ancora difficile

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Prevenire la malattia di Crohn con l’alimentazione è ancora complicato. Non sappiamo quali sono gli alimenti che aiutano a fare prevenzione. Sappiamo però che le popolazioni che mangiano vegetali, frutta, pochi carboidrati e poca carne hanno un tipo di flora intestinale meno soggetta a infiammazione di quella delle popolazioni occidentali che consumano, invece, più carboidrati e grassi. Quindi, in qualche modo, l’alimentazione causa nel tempo un’alterazione della flora intestinale che poi, per altri motivi, geni o familiarità, può provocare l’insorgenza della patologia.

A oggi molta attenzione della ricerca ha lo scopo di individuare perché i pazienti con Crohn abbiano disbiosi, cioè un alterato equilibrio della flora intestinale, e se questo sia in qualche modo correlato con l’alimentazione.

La malattia di Crohn è una malattia infiammatoria cronica intestinale. L’aumento degli ultimi anni è argomento di discussione del mondo della medicina. Una delle ipotesi è la trasformazione dell’ambiente in cui viviamo, il maggior utilizzo di farmaci (ad esempio, l’uso di antibiotici e di tanti cicli di antibiotici in età infantile può predisporre o aumentare il rischio di sviluppare il Crohn), e l’alimentazione. Questa modificazione del contesto ha mutato la flora intestinale del nostro intestino».

Com’è possibile individuare la malattia di Crohn?

Il Crohn colpisce frequentemente il piccolo intestino. Le nuove metodiche che ci aiutano a scoprirlo sono la risonanza magnetica dell’intestino e l’ecografia mirate alle anse intestinali. Uno dei problemi è che non esiste un test diagnostico unico; quindi fare diagnosi, in una grossa percentuale di pazienti, significa mettere insieme tanti pezzi di un puzzle che vanno dai sintomi agli esami di laboratorio, dall’endoscopia all’imaging avanzato all’esame istologico.

La novità del trattamento della malattia di Crohn è rappresentata dai farmaci biologici. Sono farmaci molto efficaci. Agiscono su “bottoni” specifici dell’infiammazione e riescono, “spegnendoli”, a risolvere l’attività infiammatoria in oltre la metà dei pazienti, soprattutto se usati in maniera precoce.