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I segreti del cuore ad alta quota

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La montagna ha un effetto salutare sul nostro fisico e sul nostro umore poiché possiamo goderci attimi di completo silenzio respirando aria pulita. È per questo motivo che molti medici e sportivi consigliano la montagna come “cura” e come allenamento. Ma ci siamo mai chiesti come reagisce il nostro oganismo a determinate altitudini e quali analogie esistano fra le condizioni degli alpinisti ad alta quota e quelle di un paziente cardiopatico o anche di un obeso sul livello del mare?
Humanitas Gavazzeni ha organizzato un convegno insieme con esperti di soccorso alpino e speleologico, membri della Commissione Medica del C.A.I. di Bergamo e appassionati di montagna per cercare di rispondere a queste domande.
“Le ricerche sulla fisiopatologia in alta quota – afferma il dott. Piersilvio Gerometta del Dipartimento Cardiovascolare di Humanitas Gavazzeni – rivestono un’importanza notevole non solo per tutti coloro, sportivi e medici, che amano la montagna, ma anche in molti campi della medicina. Le alterazioni cardiovascolari e metaboliche che si osservano in quota, infatti, sono riscontrabili anche nella pratica medica quotidiana in varie tipologie di pazienti. Negli obesi, che soffrono ad esempio di disturbi respiratori cronici come le apnee notturne dovuti all’eccesso di peso, si possono ritrovare alterazioni metaboliche che sono evidenti anche a certe altitudini”. Gli studiosi hanno inoltre osservato che il cosiddetto “mal di montagna” può portare gli alpinisti, in determinate condizioni, ad avvertire nausea, mancanza di appetito e difficoltà nel prendere sonno. A causare questi sintomi sono due ormoni che regolano l’appetito: la leptina e la grelina, il cui rilascio da parte dell’organismo è strettamente collegato al sonno. Naturalmente il controllo della produzione di queste molecole, che evidentemente a quote elevate subisce delle alterazioni, può portare a risultati interessanti anche per la prevenzione e per la cura dell’obesità. Inoltre, i pazienti con scompenso cardiaco manifestano sintomi simili a coloro che soffrono di mal di montagna, come ad esempio l’incremento della pressione arteriosa polmonare.

Tra i partecipanti al meeting scientifico anche l’alpinista bergamasco Mario Merelli, autore di numerose imprese oltre gli 8.000 metri. “Spesso in montagna – ha spiegato Morelli – mi sono ritrovato di fronte a situazioni di emergenza, come il manifestarsi di edemi polmonari o cerebrali. Anche l’alpinista più esperto può incorrere in questi rischi e i consigli che si possono dare a chi vuole affrontare ascese impegnative sono quelli dettati dal buon senso: è importante innanzitutto affrontare la montagna con gradualità, senza tentare imprese che comportino dislivelli eccessivi. Un altro consiglio utile è quello di cercare di dormire sempre ‘più in basso’ possibile. Anche dopo aver raggiunto vette importanti è necessario infatti cercare di riportarsi più a valle, poiché il nostro corpo, specie nelle ore del riposo, fa fatica ad adattarsi a condizioni estreme”.

A queste condizioni estreme è abituato anche il prof. Gianfranco Parati, ricercatore dell’Istituto Auxologico di Milano che, insieme con altri colleghi medici e alpinisti, coordina esperimenti effettuati sull’organismo umano a 4.559 metri di altezza, nella Capanna Margherita posta su di una delle vette del Monte Rosa. In questa sorta di “laboratorio naturale” gli studiosi possono valutare gli effetti della diminuzione della concentrazione di ossigeno a livello cardiovascolare e metabolico.
La conoscenza dei meccanismi alla base di queste alterazioni, lo studio delle dinamiche fisiopatologiche e la discussione delle possibili misure correttive non rivestono soltanto un interesse di carattere teorico, ma sono anche di grande utilità pratica per escursionisti e appassionati del settore e per tutti i medici (cardiologi, medici di base, riabilitatori, pneumologi, endocrinologi) che nel lavoro quotidiano vogliono capire come trattare al meglio i propri pazienti.

Di Marco Parisi

Nella foto, il dott. Piersilvio Gerometta