Una maggiore comprensione dell’interazione tra sistema immunitario e cancro arriva da un nuovo studio pubblicato sulla rivista Science. Un gruppo di scienziati dello University College di Londra (Regno Unito) ha cercato di indagare la complessità genetica dei tumori e come questa possa essere riconosciuta e sfruttata dal sistema immunitario. I ricercatori ritengono di avere individuato un modo per identificare particolari mutazioni comuni alle cellule di una determinata neoplasia, che potrebbero diventare il bersaglio di immunoterapie.
La ricerca è stata condotta esclusivamente in laboratorio dove sono state isolate cellule specializzate del sistema immunitario, i linfociti T, da campioni di pazienti colpiti da tumore al polmone. Gli scienziati hanno visto che queste cellule erano in grado di riconoscere questi “marchi” comuni a tutte le cellule tumorali e di indirizzarsi contro di loro.
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La complessità genetica, eterogeneità, del cancro è il suo punto di forza ma grazie a questa ricerca i suoi autori sono convinti di aver trovato invece il suo punto debole. Si tratta di mutazioni presenti nelle cellule tumorali e che provocano la modifica degli antigeni presenti sulla superficie delle cellule tumorali.
«Questo è il tratto più interessante che emerge dallo studio. L’idea è quella di colpire mutazioni presenti in tutte le cellule di una determinata neoplasia e non mutazioni presenti solo in gruppi di cellule (paragonando la crescita di un tumore ad un albero, si tratterebbe di colpire le mutazioni presenti nel tronco e non quelle dei singoli rami). Mutazioni che determinano la presenza di antigeni presenti su tutte le cellule contro i quali si potrebbe riattivare il sistema immunitario», spiega la dottoressa Lorenza Rimassa, vice responsabile dell’UO di Oncologia Medica dell’Istituto Clinico Humanitas.
Studio ancora lontano da pratica clinica
I ricercatori pensano di poter un giorno riattivare i linfociti T del sistema immunitario per poterli indirizzare verso le cellule tumorali sulla scorta di questa “firma” genetica. Addirittura si potrebbe mettere a punto un vaccino o coltivare questi linfociti in laboratorio per poi rimetterli nel corpo e “scatenarli” contro il tumore. Si giungerebbe così all’estremo limite della medicina personalizzata nel trattamento dei tumori, dove ogni paziente avrebbe il suo trattamento “su misura”.
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Tuttavia la realtà è un’altra, come avverte la dottoressa Rimassa: «Sebbene si tratti di uno studio affascinante dal punto di vista della ricerca, di fatto siamo lontanissimi dalla pratica clinica, vi è un alto rischio che quanto ipotizzato dai ricercatori non funzioni e non possa quindi tradursi in una nuova opzione terapeutica».