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Da Humanitas all’inferno del terremoto

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La testimonianza da Tokyo del dott. Matteo Guerrini, ricercatore di Fondazione Humanitas per la Ricerca.

Ricercatore della Fondazione Humanitas per la Ricerca, 33 anni, il dott. Matteo Guerrini vive e lavora in Giappone. Si trovava a Tokyo proprio durante il devastante terremoto che ha colpito il Paese l’11 marzo scorso e la sua testimonianza, raccolta da Humanitas Salute il 31 marzo, descrive quei momenti in modo vivo e diretto.

Dott. Guerrini, dove si trova in Giappone e perché?
“Vivo e lavoro nel centro di Tokyo. Abito a Odaiba, un quartiere futuribile costruito negli anni ‘90 su un’isola artificiale nel centro della baia della città, in un alloggio per ricercatori universitari. Ogni mattina per recarmi al lavoro prendo una monorotaia automatica, poi la Yamanote line, che è la linea principale della metropolitana di Tokyo. Sto svolgendo la mia attività di post dottorato presso il laboratorio del professor Hiroshi Takayanagi alla Tokyo Medical and Dental University. Il laboratorio si occupa di osteoimmunologia, un nuovo campo interdisciplinare che studia l’interazione del sistema immunitario con il suo ambiente, cioè le ossa e il midollo osseo”.

Dov’era al momento del terremoto? Può descrivere cosa è successo?
“Nel pomeriggio dell’11 marzo mi trovavo in laboratorio, all’ottavo piano, e stavo per iniziare un esperimento. Alle 15 circa la terra ha iniziato a tremare, forte e a lungo. La scossa sembrava inizialmente di normale entità – qui piccole scosse sismiche sono molto frequenti – e nessuno se ne è preoccupato. Il giorno prima ce n’era stata una modesta e pensavamo che fosse come quella. Invece l’intensità ha iniziato ad aumentare, sempre di più, sempre di più. I cassetti sotto i banconi da laboratorio si aprivano e si chiudevano, i libri cadevano dagli scaffali, qualche bottiglia di soluzioni è caduta e si è frantumata al suolo.

Non sapevo cosa fare, ma una mia collega giapponese mi ha aiutato a prendere le precauzioni più ovvie e importanti. Ci siamo rifugiati sotto al tavolo, aspettando che la scossa terminasse. Tutto il palazzo si muoveva in senso rotatorio, descrivendo un cerchio di 50/70 centimetri di raggio. Stare in piedi senza reggersi a qualche cosa sarebbe stato davvero difficile. Il terremoto era così forte che facevo fatica perfino a stare accovacciato in modo stabile: davvero incredibile. Finita la scossa, mentre ero ancora stordito, la collega mi ha detto di infilare le scarpe (in laboratorio si sta in ciabatte), per non tagliarsi con i vetri che si potevano trovare in strada, particolare molto importante quando ci si deve muovere velocemente. Presi cellulare e portafogli, siamo usciti in cortile. Dopo circa mezz’ora una seconda forte scossa ha fatto oscillare il palazzo e qualche finestra lasciata aperta (un’altra regola importante: se sono presenti fornelli, meglio aprire le finestre per prevenire esplosioni dovute a fughe di gas) è saltata fuori dalle guide ed è caduta. Poi siamo rientrati in laboratorio, il palazzo non aveva subito lesioni tali da pregiudicarne l’agibilità, e abbiamo lavorato fino a sera. Allora sono tornato a casa, attraversando la città paralizzata”.

Come ha reagito la popolazione al momento del terremoto? E nei giorni successivi?
“La popolazione al momento del terremoto ha reagito in modo composto e ordinato. Non ho assistito a scene di panico o isteria. Le metropolitane erano bloccate in attesa che venissero verificati i binari. I poveri pendolari si sono visti costretti a dormire in ufficio e tutti coloro che avevano un’auto si sono riversati nelle strade, creando un ingorgo colossale. Nei giorni successivi, che sono coincis con il weekend, a causa delle difficoltà con i trasporti Tokyo si presentava deserta rispetto ai suoi affollatissimi standard, silenziosa e tranquilla, in modo irreale.
L’incrocio di Shibuya, famoso per il viavai incessante di pedoni e automezzi, appariva come un tranquillo crocevia di provincia. Nei giorni successivi lo spavento per il terremoto ha lasciato il passo alla preoccupazione per le vittime nel Nord del Paese, di cui si iniziava ad avere notizia. La dimensione della catastrofe non è stata subito percepita come immane, quale purtroppo si è poi rivelata. A queste tragiche notizie si è poi sovrapposto l’allarme nucleare e sono iniziate le corse ai supermercati. Ancora una volta però non posso dire di avere assistito a scene di panico. Al massimo la gente faceva la fila per comprare generi alimentari freschi al supermercato, prima che fossero esauriti. Nei giorni seguenti la notizia che l’acqua di Tokyo non era più potabile perché radioattiva ha scatenato la corsa all’acqua minerale. Una bottiglia da 1,5 litri è ora introvabile in tutta la capitale. Poco importa che l’allarme sia rientrato. Tutti hanno ben capito che lo iodio radioattivo, seppure a livelli inferiori alla soglia di allerta, è presente nell’acqua e non la vogliono bere”.

Perché ha deciso di restare lì nei giorni successivi, a differenza di molti stranieri che sono scappati?
“Sono rimasto perché non volevo mettermi subito in viaggio, esponendo me e mia moglie al rischio di lunghe attese, magari sotto la pioggia. Il mio pensiero è andato immediatamente alla nube di vapore radioattivo che doveva essersi levata dalla centrale nucleare. Non era stato annunciato dai media, ma mi sembrava logico che raffreddando un reattore scoperchiato con getti d’acqua, si sarebbe formato del vapore, probabilmente contaminato. Abbiamo quindi atteso di avere informazioni precise riguardo ai trasporti, alle conseguenze dell’impianto nucleare, alle previsioni meteo. Quando ci siamo mossi lo abbiamo fatto in fretta. Io sono venuto in Europa per un viaggio di lavoro, mia moglie ha raggiunto la propria famiglia nel Sud del Giappone, alle spalle del monte Fuji”.

Perché ha deciso di rientrate a Tokyo dopo il breve soggiorno in Europa?
Perché la mia vita è qui adesso. Ho sposato una donna giapponese, quindi ho moglie e famiglia qui. Il mio lavoro è a Tokyo e non voglio perderlo. Inoltre penso che Tokyo in questo momento sia relativamente sicura, anche se è necessario non bere l’acqua del rubinetto. Ora è molto importante essere continuamente informati riguardo alla situazione dell’impianto atomico. Se la situazione a Fukushima dovesse peggiorare, prenderei in considerazione l’ipotesi della fuga da Tokyo. Ma ci penserò solo nel malaugurato caso che gli eventi degenerino in una grave crisi”.

Com’è la situazione lì attualmente? In relazione al pericolo radiazioni?
“Attualmente a Tokyo non è presente radioattività nell’aria e quella nell’acqua è molto bassa, a tal punto che l’acqua sarebbe potabile. Avendone la possibilità, confesso che preferisco bere l’acqua minerale però. Molti preferiscono non andare al ristorante o a mangiare fuori nella pausa pranzo. La pioggia potrebbe essere contaminata, quindi a mio parere è prioritario non esporvisi. Si vive in attesa di notizie precise, ma non ne arrivano molte. Bisogna essere attenti e cercare di capire bene quali notizie sono importanti e quali no. Le autorità non hanno interesse ad alimentare l’attenzione su questa situazione e la comunicazione è molto ‘attutita’. Si sa che i livelli di contaminazione intorno alla centrale sono alti sia nell’aria sia nel suolo e ultimamente anche nel mare adiacente. Credo che d’ora innanzi sarà necessario prestare la massima attenzione al cibo.

La situazione logistica, riguardo ai trasporti e i servizi, è normale, fatte salve una certa oscurità diffusa e la desolazione serale. Entrambe derivano dal tentativo di risparmiare energia elettrica. La produzione di energia è infatti stata ridotta perché le centrali nucleari sono chiuse per controlli e verifiche. Tutto il Giappone viene periodicamente sottoposto a dei blackout perché non c’è abbastanza elettricità per tutti. Le autorità hanno invitato tutti a cercare di ridurre i consumi e tutti fanno quello che possono. Pertanto lavoriamo nella penombra e i negozi chiudono poco dopo l’imbrunire. Tokyo è oggi una città buia, poco attiva, senza pedoni”.

Di Cristina Bassi