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La scuola delle cellule contro il cancro

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Le recenti scoperte sul modo in cui molte patologie ingannano, aggirano e corrompono il nostro sistema immunitario hanno aperto nuove frontiere terapeutiche, in particolare per quanto riguarda la lotta ai tumori. Ne parla Malcolm K. Brenner, uno dei pionieri delle terapie cellulari e terapie geniche.

I progressi compiuti nella comprensione di come le malattie distruggono le nostre difese, assieme alle più avanzate conquiste nel campo della genetica e della biologia, consentono di sviluppare cure innovative, capaci di agire direttamente a livello cellulare e molecolare. Ad esempio, siamo in grado di estrarre alcune cellule del sistema immunitario, di “istruirle” con precise finalità terapeutiche, per poi reinserirle nel corpo del paziente. Uno dei pionieri in questo settore è Malcolm K. Brenner, direttore del Centro per le Terapie Cellulari e Genetiche presso il Baylor College of Medicine di Houston, in Texas. Si tratta di una struttura di oltre 4 mila metri quadri, dotata dei più avanzati laboratori per la ricerca e lo sviluppo di terapie cellulari e geniche. All’inizio degli anni ‘90 Brenner è stato uno dei primi scienziati ad utilizzare tecniche di trasferimento genetico sulle cellule staminali del midollo osseo. Recentemente le sue ricerche si sono indirizzate al modo in cui ripristinare e stimolare il nostro sistema difensivo contro le cellule tumorali.

Professor Brenner, cosa si intende quando si parla di terapia genica e terapia cellulare?
“La capacità di manipolare i geni e di modificare le cellule dal punto di vista molecolare ci offre nuove prospettive anche per quelle malattie per cui non esistevano cure efficaci. La terapia genica in senso stretto consiste nell’introdurre all’interno di cellule del corpo umano un gene o un filamento di DNA che va a correggere un errore o un problema genetico correlato alla patologia. I geni vengono introdotti nelle cellule mediante un vettore, in genere un virus modificato, e le cellule manipolate vengono quindi reintrodotte nel corpo umano. Purtroppo ancora oggi è difficile garantire che le nuove ‘istruzioni’ arrivino alla giusta destinazione del genoma umano e che la ‘correzione dell’errore’ sia duratura nel tempo. Tuttavia, per malattie come alcune immunodeficienze congenite, i risultati ottenuti sono di assoluto valore clinico.

Un metodo più consolidato e già efficace sono le terapie cellulari, definizione di ampio respiro all’interno della quale rientrano molteplici applicazioni. Ad esempio si possono prelevare dal corpo umano cellule del sistema immunitario e coltivarle in vitro per arricchirne il contenuto, mettendole in grado di riconoscere un determinato tipo di agente virale. Queste cellule vengono poi reinfuse nel paziente per prevenire o curare infezioni virali in pazienti immunodepressi, come coloro che ricevono un trapianto di midollo osseo o di organo. In altri casi è possibile espandere in vitro cellule del sistema immunitario che riconoscono ed eliminano cellule tumorali. Queste terapie cellulari possono poi essere integrate con la terapia genica, in quanto è possibile utilizzare geni specifici per potenziare la risposta antitumorale delle cellule del sistema immunitario. Queste tecniche potrebbero avere un significativo impatto su diverse patologie come quelle monogeniche ereditarie (ad esempio l’emofilia), malattie infettive (tra cui l’HIV e le epatiti), diversi tipi di tumore, diabete e perfino alcune malattie coronariche”.

Come è nato il suo interesse per un campo così complesso, al confine tra la ricerca e la clinica?
“Più di 30 anni fa, appena terminato a Cambridge il mio PhD in immunologia, decisi di occuparmi di immunodeficienze acquisite, che già allora erano una grande sfida medica e scientifica. Inoltre, essendo un medico, mi attirava il fatto che in questo settore fosse indispensabile abbinare la ricerca ad un approccio diretto con i pazienti.
Poi esplose il problema dell’Aids, e la necessità di trasferire i risultati ottenuti in laboratorio alla pratica clinica divenne ancora più pressante. Fu allora che cominciai ad interessarmi del trapianto cellulare, in particolare delle cellule staminali del midollo. Alla fine degli anni ‘80 si ipotizzò che questa tecnica potesse consentire il trasferimento di nuovi geni con finalità terapeutiche. Ma in Inghilterra, all’epoca, non c’erano le infrastrutture adatte per questo tipo di approccio, così mi trasferii negli Stati Uniti, dove nel 1992 ho eseguito alcuni tra i primi interventi di trasferimento genico in cellule ottenute dal midollo osseo. Da quel momento ho dedicato le mie ricerche ad individuare le tecniche più adatte per modificare le cellule del nostro sistema immunitario e renderle più efficaci nel combattere il cancro o le malattie infettive”.

Ci sono già applicazioni di queste tecniche in campo clinico?
“Oggi siamo in grado di produrre cellule capaci di aggredire diversi tipi di tumore. I nostri risultati più recenti riguardano i linfomi. Abbiamo appena concluso uno studio che ha coinvolto undici pazienti sui quali le terapie convenzionali, purtroppo, non avevano funzionato. Nove di essi hanno risposto positivamente alle cure, e in sette casi la malattia è stata sconfitta in modo definitivo. Inoltre abbiamo in corso delle ricerche sulle applicazioni di queste tecniche anche contro il neuroblastoma, raro ma estremamente letale tumore cerebrale maligno che colpisce i bambini. Da poco, invece, sono iniziati i primi studi per verificare l’impiego di queste cellule modificate contro il cancro al polmone”.

Quali sono le reazioni dei pazienti a questo tipo di terapie?
“Molto positive. Chi si sottopone a questi test clinici è spesso reduce dall’insuccesso di una terapia tradizionale, e in più della metà dei casi la terapia cellulare si rivela efficace. Sempre più spesso ci troviamo di fronte a pazienti ben informati sulla malattia, sulle cure che hanno effettuato e sulle prospettive di guarigione. E questo li porta a fare domande piuttosto dettagliate e a partecipare alla cura in modo attivo e convinto”.

Ci sono indicazioni specifiche o limitazioni nell’impiego di queste cure?
“Le terapie cellulari non hanno effetti collaterali negativi sul paziente: da questo punto di vista quindi non ci sono limitazioni per le loro applicazioni. Tuttavia la sperimentazione clinica ci ha dimostrato che queste cure non sono efficaci in tutti i casi. Ecco perché, ora, uno dei nostri obiettivi è comprendere quali caratteristiche, genetiche o molecolari, deve avere un paziente per rispondere positivamente alle cure. E questa indagine va condotta in modo specifico per tutte le patologie in cui si pensa di utilizzare l’approccio cellulare.
Un altro aspetto critico sono i tempi di produzione. Per ottenere cellule modificate da trasferire nel paziente prima occorrevano circa dieci settimane, oggi siamo in grado di completare il processo in dieci giorni. Abbiamo fatto quindi dei notevoli progressi, ma ci sono ancora dei margini di miglioramento su cui ci stiamo impegnando. Il campo di applicazione di queste terapie infatti riguarda patologie estremamente gravi, nelle quali il tempo è un fattore determinante. Ma per risolvere tutte queste complessità bisogna trovare prima le risorse economiche necessarie a sostenere la ricerca e la produzione”.

L’innovazione in medicina non crea di per sé anche un vantaggio economico per il sistema sanitario?
“In effetti queste innovazioni stanno contribuendo a cambiare l’approccio economico alla sanità. Emergono sempre più dati a dimostrazione del fatto che terapie innovative come queste, che agiscono nella fase iniziale della malattia e vanno a colpire i meccanismi con cui questa si diffonde e danneggia l’organismo, risultano economicamente più vantaggiose. E questo proprio perché si impedisce alla patologia di diventare cronica, evitando al paziente danni fisici gravi e progressivi che richiedono trattamenti prolungati nel tempo e più intensivi. E quindi più costosi. Perfino le assicurazioni americane hanno cominciato a garantire questo tipo di cure per alcune malattie, come i linfomi”.

Quali scenari futuri possono aprire queste terapie?
“Nel nostro centro oltre alle ricerche nel campo dei tumori esistono le strutture e le conoscenze necessarie per avviare studi sulle potenziali applicazioni di queste terapie per malattie come il lupus eritematoso sistemico, l’artrite reumatoide e la sclerosi multipla. Sono convinto che proprio per il fatto che queste cure agiscono in modo estremamente mirato e preciso sui meccanismi di base della malattia, le cellule geneticamente modificate saranno impiegate sempre più spesso dal punto di vista terapeutico e in un numero crescente di patologie”.

A cura di Carlo Falciola e Manuela Lehnus