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Contro il dolore una battaglia civile

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“Una battaglia civile”. Per Mario Pappagallo, giornalista scientifico del Corriere della Sera, e suo fratello Marco, medico e docente alla New York University, si tratta di questo. Di un lavoro accurato e documentato, finalizzato alla diffusione in Italia della terapia del dolore. Contro i pregiudizi che nel nostro Paese rendono tabù questo argomento e attraverso un libro recentemente edito da Frassinelli: “Contro il dolore. I nuovi strumenti della medicina per non soffrire inutilmente: una battaglia civile”. Ne parliamo con Mario Pappagallo.

La terapia del dolore in Italia. A che punto siamo? E qual è la situazione all’estero?
“Quello della terapia del dolore è un problema tipicamente italiano. Nel nostro Paese il dolore è considerato dagli stessi medici un sintomo e non una patologia, non viene fatta una diagnosi corretta delle cause e vengono prescritti farmaci che non c’entrano nulla con l’origine del problema. I rimedi davvero efficaci contro il dolore da noi vengono somministrati solo ai malati terminali. Negli Stati Uniti invece il dolore è trattato come una malattia in sé e i farmaci oppiacei non vengono usati solo per i malati terminali”.

Come viene affrontato nel nostro Paese il problema del dolore?
“Prendiamo il mal di schiena, ad esempio. È un problema invalidante e costoso per la società in termini di ore di lavoro perse ed è solitamente trattato con antinfiammatori. Questa soluzione è molto semplice per il medico, ma occorre considerare che gli effetti collaterali degli antinfiammatori sono ben più gravi di quelli degli oppioidi. Non si ha notizia di morti causate dalla morfina o dagli oppioidi in genere, mentre negli Stati Uniti si sono verificate migliaia di morti causate da farmaci antinfiammatori”.

Quali sono secondo lei i motivi di questi errori di valutazione?
“È soprattutto un problema culturale. A livello politico gli ultimi ministri hanno fatto dei passi avanti. Ma occorre un cambio di mentalità. I nostri medici non ricorrono di norma alla terapia del dolore e molti farmaci previsti per questo tipo di terapia in Italia non sono neppure approvati. Ad esempio, l’uso del metadone è permesso solo in sciroppo e solo nei Sert, mentre negli Stati Uniti è utilizzato anche in compresse come antidolorifico. Si teme la tossicodipendenza. Ma negli Usa, dove comunque il problema della droga è molto forte, l’uso medico di oppiacei non è considerato un fattore che aumenta il rischio di diffusione degli stupefacenti. I malati che usano queste sostanze lo fanno per combattere il dolore, non certo per il senso di ebbrezza che danno. La cosa importante è che questi farmaci vengano somministrati ai malati in dosi specifiche, stabilite di volta in volta dai medici”.

L’opinione della Chiesa influisce negativamente?
“Non credo che in questo caso la religione c’entri molto. È vero che la Chiesa, soprattutto in passato, ha spesso indicato il dolore come via di purificazione, ma nei testi sacri questo non è scritto. Neppure in quelli delle altre religioni monoteiste. Anzi, in alcune dottrine, come il buddismo o le antiche religioni degli indiani d’America, il dolore è considerato un elemento da controllare e allontanare con la forza della mente”.

Nel vostro libro affrontate tutte queste tematiche?
“Nel libro descriviamo le varie patologie legate al dolore e le cure possibili. Cerchiamo di far conoscere terapie esistenti e di spiegare che, utilizzate nel modo corretto, sono molto più efficaci di quelle usate da noi. In Italia il dolore non si cura. O comunque si cura solo in ospedale, con l’anestesia, e negli hospice per malati terminali. I medici di base poi non prescrivono farmaci oppioidi, neppure nei pochi casi previsti, perché anche loro li conoscono ben poco. Lo scopo del libro è spiegare ai lettori e ai medici di base che il dolore è una malattia, non un semplice sintomo e informarli sulle terapie esistenti, su quelle non invasive e farmacologiche in particolare. Ad esempio la morfina, gli oppioidi, gli antinfiammatori, i loro dosaggi più corretti, che controllano il dolore senza compromettere la qualità della vita del paziente, assicurandogli cioè una vita attiva. In Italia si tende a usare la morfina il più tardi possibile, cioè quando non se ne può più fare a meno o quando il malato è terminale. Negli Stati Uniti al contrario si somministra la morfina prima ancora che il dolore compaia, per prevenirlo. D’altra parte l’oppio è uno dei farmaci più antichi e naturali, il nostro organismo infatti produce endorfine contro il dolore, per ciò c’è il rischio di dipendenza fisica, ma solo nel caso in cui queste sostanze vengano prese senza prescrizione medica. E c’è un altro vantaggio: questo tipo di farmaci costa poco. L’ideale sarebbe creare dei centri specializzati in terapia anche per malati che non siano terminali, ma che abbiano semplicemente il bisogno di combattere il dolore”.

C’è ancora molta strada da fare.
“In Italia il dibattito sulla terapia del dolore è molto indietro, rispetto a Stati Uniti e Canada, ma anche al resto d’Europa. Basti un esempio: in Francia in caso di catastrofe naturale o di incidente stradale i soccorritori hanno nella cassetta di pronto soccorso una fiala di morfina, per alleviare il dolore dei feriti in situazioni di emergenza. La terapia del dolore è un diritto del malato, che deve conoscere le differenti cure, tutti i mezzi farmacologici che esistono. Da noi manca la cultura stessa della diagnosi del dolore, spesso viene sottovalutato, oppure si cercano le cause nella direzione sbagliata. E la valutazione del dolore è spesso sbagliata. Ci sono indagini che dimostrano che in reparto la percezione del dolore del paziente è spesso sminuita da parte di medici e infermieri. Mi chiedo: su quale base scientifica? Dovrebbero tener conto anche della percezione psicologica del dolore che ne è parte integrante. Concludo con un dato: nella sua valutazione della qualità della vita nei diversi Paesi l’Oms considera anche le dosi di morfina utilizzate. Questo aspetto è giudicato un segnale di civiltà in uno Stato. Nella classifica l’Italia è ai livelli del Ruanda”.

Di Cristina Bassi