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La salute si studia nello spazio, ecco il ruolo degli astronauti

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Le missioni spaziali sono una ghiotta occasione per approfondire diversi aspetti della medicina. Dagli esperimenti e dalle ricerche condotte in orbita – di cui spesso gli astronauti sono protagonisti – si possono infatti trarre importanti indicazioni su alcune condizioni, tanto “terrestri” quanto spaziali, e sul loro trattamento. Al centro della ricerca scientifica c’è infatti anche lo stato di salute degli astronauti stessi che, nello spazio, possono andare incontro a problemi di tipo cardiovascolare, metabolico e muscolo-scheletrici.

Un recente studio della Nasa, l’agenzia spaziale americana, e del National Space Biomedical Research Institute (Nsbri) ha indagato le differenze di genere che caratterizzano gli effetti di un viaggio nello spazio sulla salute umana. Un aspetto rilevante alla luce della partecipazione ormai consuetudinaria delle donne alle missioni spaziali che, tra l’altro, sono diventate sempre più lunghe. Samantha Cristoforetti, prima astronauta italiana, è rimasta 200 giorni a bordo dell’Iss, la Stazione spaziale internazionale, nel 2015.

Cosa hanno visto i ricercatori? Che al loro rientro le donne tendono a perdere conoscenza prima degli uomini, che uomini e donne rispondono diversamente allo stress a cui sono sottoposti nello spazio, che gli astronauti tendono a soffrire di più di problemi agli occhi rispetto alle loro colleghe, ad esempio.

(Per approfondire leggi qui: Osteoporosi, i suoi segreti svelati nello spazio?)

Come si legge nell’International Space Station Benefits for Humanity, un documento delle principali agenzie spaziali internazionali (da Usa, Canada, Russia, Giappone ed Europa), l’Iss è un laboratorio unico per studiare il comportamento delle cellule, il sistema di risposta allo stress psicologico, la nutrizione, i modelli di alcune patologie. Tutto questo all’interno di un ambiente peculiare caratterizzato dalla microgravità, una condizione che impatta sull’organismo degli astronauti: «Per l’assenza di gravità le ossa non sono sottoposte ai normali carichi del peso corporeo e della gravità stessa e vanno incontro a un impoverimento del tenore calcico e dunque a un processo osteoporotico», spiega il professor Raffaello Furlan, responsabile dell’Unità Operativa di Clinica Medica dell’ospedale Humanitas. «Per questo motivo – aggiunge – in orbita gli astronauti seguono un’alimentazione particolare che prevede la supplementazione di vitamina D e calcio».

Quando cambia la gravità interviene il sistema nervoso simpatico

L’osteoporosi è una delle condizioni più approfondite dalla ricerca scientifica direttamente in orbita. Ad esempio lo studio SOLO dell’Esa, l’agenzia spaziale europea, ha analizzato gli effetti dell’assunzione di sale, quindi di sodio, sul metabolismo osseo: quando l’apporto di questo minerale è eccessivo la perdita ossea sarebbe accelerata. Anche nella missione di Samantha Cristoforetti l’equipaggio si è occupato dei meccanismi del metabolismo osseo e del deterioramento dei tessuti ossei.

La forza di gravità impatta anche su cuore e vasi sanguigni, come spiega il professor Furlan. «Un altro tema importante è quello del decondizionamento cardiovascolare alla forza di gravità. L’uomo dalla nascita è sottoposto alla forza di gravità, lo stimolo fisiologico più potente e continuo che esista. Da subito il nostro sistema cardiovascolare deve imparare ad avere a che fare con questo stimolo, ad esempio quando il corpo passa da una posizione seduta a una in piedi e viceversa. L’adattamento fisiologico a questo stimolo prevede l’intervento del sistema nervoso autonomo».

«Quando ci alziamo l’organismo si rende conto che stando in piedi il sangue per questioni di gravità tende a defluire o rimanere nelle parti declivi del corpo. Pertanto agli organi periferici arriva meno sangue. Il sistema nervoso simpatico corre così ai ripari con alcune contromisure come l’aumento della pressione diastolica e del battito cardiaco. Ebbene, è come se questi meccanismi si “spegnessero” quando la forza di gravità viene a mancare. Bastano 20 minuti senza lo stimolo della gravità per disattivarli».

L’impatto dell’assenza di gravità nello spazio viene però controllato dagli astronauti

«I membri di un equipaggio spaziale passano delle ore utilizzando degli strumenti che richiamino all’organismo gli effetti della forza di gravità, ad esempio pedalando su cicloergometri o utilizzando una pedana particolare alla quale si ancorano simulando una camminata. Oppure entrando in un cilindro in cui si crea un vuoto programmato per richiamare il sangue verso le gambe, come se il soggetto stesse in piedi (Lower Body Negative Pressure, pressione negativa applicata alla parte inferiore del corpo). Sono tutte manovre con cui evitare gli effetti della assenza di gravità e il decondizionamento cardiovascolare. Inoltre si redistribuiscono i volumi di sangue dal torace alle zone sottombelicali, cioè addome e gambe simulando quello che avviene quotidianamente sulla terra. Infatti in assenza di gravità il sangue tende a ridistribuirsi prevalentemente nel distretto toracico e questo si ripercuote sul volto che diventa più paffuto. Il tutto non è solo una questione estetica perché nei primi giorni di permanenza nello spazio capita che i membri dell’equipaggio soffrano di cefalee molto fastidiose».

(Per approfondire leggi qui: La medicina che viene dalle stelle)

I comportamenti prodotti dalla microgravità sono oggetto di studio e di simulazioni: «Si ricorre a modelli sperimentali e alla partecipazione di alcuni volontari che restano a letto con la testa in posizione più bassa di almeno 6° rispetto alle gambe. Così si valutano gli effetti sul metabolismo osseo, sui muscoli (oggetto di atrofia) e sul sistema cardiovascolare», aggiunge il professore.

E al ritorno cosa succede?

«Quando rientrano sulla terra, gli astronauti vanno incontro in molti casi a episodi sincopali, a perdita di conoscenza. Spesso gli astronauti vengono fotografati al rientro ancora dentro le tute che mantengono compresse gambe e pancia per garantire il ritorno venoso del sangue al cuore. Ma una volta dismessa la tuta può capitare che perdano conoscenza». La ricerca di Nsbri e Nasa ha ravvisato come il problema dell’intolleranza ortostatica, ovvero l’incapacità di restare a lungo in piedi senza svenire, sia più diffusa tra le donne che tra gli uomini.